«[…] era stata fatta senza alcuna intenzione preconcetta, era emersa solo dall’interesse per la linea tracciata dalla mia mano sulla carta»
M. Milner, Non poter dipingere, p. 113
Le seguenti riflessioni condividono il titolo con il primo capitolo del libro Non poter dipingere1 (On not being able to paint), scritto dalla psicoanalista inglese Marion Milner. Questa interessantissima opera approfondisce il tema della creatività psichica attraverso il punto di vista di una pittrice dilettante – la stessa Milner – alle prese con scoraggianti frustrazioni e irritanti ostacoli, gli stessi che chiunque abbia provato a esprimersi in maniera artistica certamente conosce. Il discorso non si orienta, dunque, intorno alle attività di un professionista, il quale è di solito fornito di una serie di tecniche, strategie e consuetudini che possono essere di aiuto – seppur solo in parte – nel tentativo di domare la “pagina bianca”, queste ultime molto spesso orientate a soddisfare una precisa richiesta; Si occupa, piuttosto, dell’impulso creativo spontaneo. In apertura del capitolo l’autrice scrive:
«Dapprima i libri sulla pittura mi sembrarono utili. Parlavano della necessità di uno schema nel distribuire linee e masse, ombre e luci, contrasti e armonie di colore, tutte cose su cui non avevo mai riflettuto. Quando però cercai di mettere in atto queste nuove conoscenze, tutto ciò che dipingevo seguendo queste nuove regole, continuava a sembrarmi contraffatto. Ma uno dei libri diceva che lo scopo del dipingere era che l’occhio doveva trovare ciò che gli piaceva. Questa mi sembrò un’idea utile».
Ciò che piace all’occhio. A mio avviso, la semplicità di questa espressione nasconde una sorprendente profondità. Per quanto mi riguarda si potrebbe dire, allo stesso modo, ciò che piace all’orecchio o a qualsiasi apparato sensoriale atto a fruire di una certa forma espressiva. L’attitudine a coltivare l’ascolto interiore nella pratica artistica pare porsi come una sorta di “radar”, uno strumento di discernimento basato sulla sensazione, tanto semplice quanto incredibilmente preciso. Sarebbe fin troppo facile svilire un’affermazione che si pone con una tale disarmante vulnerabilità, bollarla come semplicistica, ricorrere a chissà quale pensiero pur di affermare che un’opera artistica raggiunga il suo compimento unicamente nella complessità dell’intelletto; ma è davvero così? Se lo scopo dell’atto creativo fosse davvero nascosto in ciò che quella citazione vuole suggerire si tratterebbe di qualcosa accessibile a chiunque e in grado di procurare una grande libertà. Con ciò, ovviamente, non intendo certo dire che qualunque pasticcio frettoloso possa avere un qualche tipo di valore artistico. Vorrei, piuttosto, porre l’attenzione su quella che ritengo essere una questione di fondo: può una simile attitudine condurre l’impulso creativo al suo scopo? Può questa modalità rivelarsi una chiave di lettura utile a schiudere il passaggio verso strade inattese? Viceversa, può un’opera progettata e concepita unicamente nel campo dell’intelletto fornirci un senso di autenticità e appagamento? Qualcosa in noi è capace di produrre un vissuto di autenticità oppure di contraffazione: cosa vogliono indicare queste sensazioni? Per chiarire meglio ciò a cui intendo alludere faccio ricorso ad un altro passaggio da questo libro prezioso:
«Scoprii che a volte era possibile eseguire schizzi o disegni in un modo completamente diverso da come mi avevano insegnato, cioè lasciando che l’occhio e la mano facessero esattamente ciò che volevano, senza cercare consciamente di ottenere un risultato prestabilito. Questa scoperta fu all’inizio talmente sconcertante, che cercai di dimenticarmene; infatti non solo sembrava minacciare tutte le comuni convinzioni sul potere della volontà e dello sforzo conscio, ma anche il senso di se stessi come entità più o meno nota, come penso accada ogni volta che l’inconscio irrompe nella coscienza»
Sarà proprio a partire da questa intuizione che l’autrice concepì l’idea dei “disegni liberi”, di cui l’immagine riportata in cima all’articolo costituisce un esempio. Si tratta di una modalità creativa che a qualcuno potrebbe ricordare alcune forme di scrittura automatica ma che prende vita nel pieno della presenza mentale senza mai sconfinare in stati di coscienza alterati: un sottile equilibrio della psiche, definito dall’autrice come una condizione di reciprocità, in cui una particolare sinergia tra forze consce e inconsce permette l’affiorare di un ordine svincolato dalla volontà. Nell’auspicio che possa offrire a chi legge stimoli fecondi, riporto una descrizione dei disegni liberi tratta dal capitolo Reciprocità e libertà ordinata in cui Marion Milner accenna al processo che porta alla loro creazione, certo che un simile approccio possa rivelarsi utile nei più diversi ambiti artistici:
La prima e più evidente caratteristica dei disegni liberi era che non rispondevano ad un piano. L’idea dei limiti della pianificazione e dello sforzo conscio, intenzionale, verso una meta prevista, non mi era certo nuova dal punto di vista intellettuale. Ma era tutt’altra faccenda cercare di agire secondo quest’idea e poi trovarsi ad affrontare tutta la forza dell’incapacità di credere in un ordine non pianificato e non voluto, come mi capitava quasi sempre nel cominciare un disegno libero. Molto spesso trovavo necessario mobilitare tutta la forza di volontà di cui ero capace per smettere di usare la stessa forza di volontà nel dettare il risultato. Ma quando questo mi riusciva, vedevo chiaramente che i disegni liberi erano delle unità molto più ordinate di quelle che avevo realizzato con lo sforzo conscio. Il compito successivo era quindi cercare di scoprire qualcosa sulle condizioni in cui le forze ordinatrici spontanee potevano trovare espressione. Prima di tutto notai che l’umore o lo stato di concentrazione in cui apparivano i disegni più espressivi aveva una qualità speciale. Era uno stato d’animo che si poteva definire di reciprocità; perché pur essendo uno stato sognante della mente, non escludeva il mondo esterno o l’azione. Era uno stato sognante che risultava dal trattenere l’intenzione conscia, o piuttosto era una momentanea volontà di averla per poi abbandonarla. Molto spesso sentivo all’inizio che intendevo consciamente disegnare una cosa, ma il punto era che bisognava essere disposti a rinunciare a questa prima idea non appena le linee tracciate suggerissero qualcos’altro. E la volontà era presente nella determinazione di continuare a disegnare, di tenere la mano in movimento sulla carta e di guardare con un particolare tipo di vigile sensibilità le forme che si producevano.
- Marion Milner, Non poter dipingere, Edizioni Borla, Roma, 2010. ↩︎