Ciò che piace all’occhio

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«Dapprima i libri sulla pittura mi sembrarono utili. Parlavano della necessità di uno schema nel distribuire linee e masse, ombre e luci, contrasti e armonie di colore, tutte cose su cui non avevo mai riflettuto. Quando però cercai di mettere in atto queste nuove conoscenze, tutto ciò che dipingevo seguendo queste nuove regole, continuava a sembrarmi contraffatto. Ma uno dei libri diceva che lo scopo del dipingere era che l’occhio doveva trovare ciò che gli piaceva. Questa mi sembrò un’idea utile». 

«Scoprii che a volte era possibile eseguire schizzi o disegni in un modo completamente diverso da come mi avevano insegnato, cioè lasciando  che l’occhio e la mano facessero esattamente ciò che volevano, senza cercare consciamente di ottenere un risultato prestabilito. Questa scoperta fu all’inizio talmente sconcertante, che cercai di dimenticarmene; infatti non solo sembrava minacciare tutte le comuni convinzioni sul potere della volontà e dello sforzo conscio, ma anche il senso di se stessi come entità più o meno nota, come penso accada ogni volta che l’inconscio irrompe nella coscienza»

La prima e più evidente caratteristica dei disegni liberi era che non rispondevano ad un piano. L’idea dei limiti della pianificazione e dello sforzo conscio, intenzionale, verso una meta prevista, non mi era certo nuova dal punto di vista intellettuale. Ma era tutt’altra faccenda cercare di agire secondo quest’idea e poi trovarsi ad affrontare tutta la forza dell’incapacità di credere in un ordine non pianificato e non voluto, come mi capitava quasi sempre nel cominciare un disegno libero. Molto spesso trovavo necessario mobilitare tutta la forza di volontà di cui ero capace per smettere di usare la stessa forza di volontà nel dettare il risultato. Ma quando questo mi riusciva, vedevo chiaramente che i disegni liberi erano delle unità molto più ordinate di quelle che avevo realizzato con lo sforzo conscio. Il compito successivo era quindi cercare di scoprire qualcosa sulle condizioni in cui le forze ordinatrici spontanee potevano trovare espressione. Prima di tutto notai che l’umore o lo stato di concentrazione in cui apparivano i disegni più espressivi aveva una qualità speciale. Era uno stato d’animo che si poteva definire di reciprocità; perché pur essendo uno stato sognante della mente, non escludeva il mondo esterno o l’azione. Era uno stato sognante che risultava dal trattenere l’intenzione conscia, o piuttosto era una momentanea volontà di averla per poi abbandonarla. Molto spesso sentivo all’inizio che intendevo consciamente disegnare una cosa, ma il punto era che bisognava essere disposti a rinunciare a questa prima idea non appena le linee tracciate suggerissero qualcos’altro. E la volontà era presente nella determinazione di continuare a disegnare, di tenere la mano in movimento sulla carta e di guardare con un particolare tipo di vigile sensibilità le forme che si producevano.

  1. Marion Milner, Non poter dipingere, Edizioni Borla, Roma, 2010. ↩︎